Intervista a Maddalena Celano: a che punto sono le nostre libertà di espressione e di movimento?

Saggista e voce critica del capitalismo, Maddalena Celano era stata invitata in Nicaragua ma non è potuta atterrare all’aeroporto di Managua. Per due volte – anche quando il tragitto non prevedeva uno scalo negli USA – le è stato impedito l’imbarco, le è stato interdetto perfino di sorvolare lo spazio aereo statunitense, senza nessuna ragione legalmente e legittimamente giustificabile. Perché dunque? In questa intervista Maddalena prova a darsi e a darci delle risposte, poiché simili proibizioni potrebbero riguardare altri fra noi. Qualunque sia la più o meno perversa spiegazione di questo divieto, infatti, esso ci manifesta ancora una volta l’esistenza di un potere repressivo, schematico, acritico e sovente perfino acefalo, che non ammette scarti dall’omologazione. «L’unanimità richiede obbedienza», ripetono come un mantra alcuni personaggi di un famoso film fantascientifico di qualche anno fa. E sembra essere questo l’auspicio degli ultimi deliri decadenti e tardo-capitalisti.

In una nota a piè di pagina di uno dei suoi libri più poetici e lancinanti, «La scomparsa di Majorana», Leonardo Sciascia aveva già intuito che, dopo il crollo del regime nazista, il totalitarismo si stava spostando sull’altra sponda dell’Atlantico. A ottant’anni dalla fine della guerra e a cinquanta dalla pubblicazione del pamphlet dello scrittore siciliano, purtroppo le ambizioni totalitarie dilagano in tutto il blocco anglo-germanico e in larga parte del mondo nord-atlantico.

La struttura organizzativa del «Manhattan Project» e il luogo in cui fu realizzato per noi si sfaccettano in immagini di segregazione e di schiavitù, in analogia ai campi di annientamento hitleriani. Quando si maneggia, anche se destinata ad altri, la morte – come la si maneggiava a Los Alamos – si è dalla parte della morte e nella morte. A Los Alamos si è insomma ricreato quello appunto che si credeva di combattere. Il rapporto tra il generale Groves, amministratore con pieni poteri del «Manhattan Project», e il fisico Oppenheimer, direttore dei laboratori atomici, è stato di fatto il rapporto che frequentemente si istituiva nei campi nazisti tra qualcuno dei prigionieri e i comandanti. Per questi prigionieri, il «collaborazionismo» era un modo diverso di esser vittime, rispetto alle altre vittime. Per gli aguzzini, un modo diverso di essere aguzzini. Oppenheimer è infatti uscito da Los Alamos annientato quanto un prigioniero «collaborazionista» dal campo di sterminio di Hitler. Il suo dramma – che non ci commuove affatto, a cui soltanto riconosciamo un valore di parabola, di lezione, di ammonizione per gli altri uomini di scienza – è propriamente il dramma, vissuto a livello individuale, soggettivo, di un nefasto «collaborazionismo» che molte migliaia di persone hanno vissuto (nel senso che ne sono morte) oggettivamente, in quanto ne sono state oggetto, bersaglio. E speriamo che altre e più vaste vendemmie di morte non vengano da questo, non ancora infranto, «collaborazionismo».

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