NUDA

di Fabrizio Catalano

Testo scritto per un libro mai pubblicato

Appartengo alla generazione cresciuta tra la fine degli anni ’70 e il principio dei ’90, in una stagione intermedia in cui le restrizioni, i pregiudizi, le repressioni erano – almeno a Palermo – lungi dallo scomparire, eppure il sogno della sensualità e la rivelazione del corpo altrui non apparivano più irraggiungibili. Da ragazzo, come molti miei coetanei, sbirciavo riviste, scrutavo manifesti per strada, sfogliavo libri più o meno proibiti: il tutto alla ricerca di immagini femminili e di frasi associate ad un unico concetto, ad un’unica parola. Poiché sarebbe stato eccessivo pretendere d’imbattersi in scene di sesso, l’obiettivo era scovare la donna nuda. All’idea stessa del nudo e persino al suono di queste quattro lettere erano legate le fantasie d’un adolescente del mio tempo, alimentate da un rigoglio di titoli cinematografici che ancora rammento: La tua presenza nuda, Nuda è arrivata la straniera, Ragazza tutta nuda assassinata nel parco, Moglie nuda e siciliana. La nudità muliebre – genuina, imperfetta, morbida, accogliente – non era soltanto eccitazione, ma ossessione: è così nella mia memoria si sono cristallizzate affermazioni ammiccanti, che emergevano dal vecchio televisore Grundig: Spogliato è volgare, nudo è… nudo!, Questa sera Carmen Russo balla nuda!, Ti ho visto io, io con i miei occhi, Evelyn: eri nuda!. Ricordo con un trasporto che rasenta l’idolatria un servizio fotografico su Nathalie Uher, protagonista di Emmanuelle 6, con la pelle di rame e le gambe snelle che scivolavano giù dall’amaca, e l’istantanea di un attrice cinese, dalla quale ancor oggi mi piacerebbe scoprire il nome, interprete di non so più quale film erotico.

Quest’aura di morbosità, questo diluito inseguimento del nudo, uniti a una mia naturale ritrosia, avrebbero potuto suscitare in me un rapporto non sereno con il mio corpo. Da adolescente, del resto, tendevo a non mostrarmi in déshabillé e preferivo, al termine di una partita di calcetto, per esempio, ritirarmi e fare la doccia a casa. Quando invece la donna nuda acquisì finalmente la tanto agognata tridimensionalità, mi accorsi, non senza stupore, di non essere affatto pudico, anzi: di vivere la mia e l’altrui nudità con rilassata, poetica naturalezza.

Al di là del desiderio e dell’attrazione fisica, e a proposito del mettersi a nudo, mi diverte tanto, oggi, la goliardia nei camerini di un teatro: la fibrillazione prima di entrare in scena, l’innocente pettegolezzo indossando i costumi, le conversazioni sottovoce, magari in mutande, durante la rappresentazione, con un orecchio a ciò che avviene sul palco, il rapido rivestirsi, al termine dello spettacolo, per andare a cena.

L’unica nudità che davvero mi turba è quella del mio cervello: e la provo allorché, seduto in platea, o appoggiato ad una parete in un angolo della sala, tento di cogliere le reazioni del pubblico, m’interrogo su come viene percepito il mio lavoro. La nudità di un’idea, di un sentimento, di una passione. La nudità dell’autentico me stesso: dissezionata, assorbita, rifiutata, amplificata. Quella impalpabile di cui però, forse, rimarrà una labile traccia.

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